Cambiamenti. Di Angelo Gaja

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Sono almeno tre i cambiamenti significativi avvenuti nel mondo del vino negli ultimi decenni.

 

  1. Perdita della funzione alimentare.

Ovunque nei paesi produttori il vino da bene alimentare che era, ha assunto la funzione di bene di lusso, indipendentemente dal prezzo, perché non indispensabile, non di prima necessità. Il paese più preparato ad affrontare la transizione fu la Francia che al vino bevanda di lusso aveva sempre riservato una minuscola nicchia. Mentre per l’Italia, il passaggio è stato culturalmente più faticoso da affrontare per le molte strutture, regolamenti e resistenze che traevano ispirazione dalla funzione alimentare. I beni di lusso richiedono tecniche di vendita diverse: occorre mettere in atto azioni di marketing appropriate, aggressive e continue nel tempo anziché accontentarsi della vecchia strategia rinunciataria e perdente del prezzo basso. A cosa serve il marketing? a fare sì che un bene venga preferito ad un altro non tanto per il rapporto qualità/prezzo, quanto per altri valori apprezzati dal consumatore: aver conosciuto il produttore, condividerne i progetti, riconoscerne la dedizione alla qualità, riporre fiducia nella denominazione e nel marchio, popolarità, notorietà, novità, rarità, storia, prestigio,… che in parte possono anche essere costruiti artificiosamente, ma è sviante diffidare sistematicamente della parola marketing; perché quando è sano e corretto consente di consolidare il legame con i consumatori, dare più visibilità ai marchi aziendali e recuperare valore aggiunto.

 

  1. Il cambiamento climatico.

E’ divenuto un tema di grande attualità ed i rimedi per contrastarne gli effetti sono stati ampiamente dibattuti. Non mi appello al “mal comune, mezzo gaudio”, però ad oggi è possibile osservare che altri paesi stiano peggio dell’Italia. Giacomo Tachis, il padre dei consulenti vinicoli italiani, usava dire che “il vino ama il respiro del mare”. Il nostro paese, con 8.000 chilometri di fascia costiera, è molto più favorito della Francia e della Spagna; gode di una orografia che lo rende ricco di acqua (ne vendiamo anche miliardi di litri in bottiglia). La conformazione collinare consente di elevarsi di quota, alla ricerca di climi più freschi (cosa che non può fare Bordeaux). L’Italia annovera un ampio numero di varietà di maturazione tardiva, che il cambiamento climatico penalizza meno di quelle precoci delle quali la Francia è ricca. L’annata 2017 insegna, per chi vuole imparare, le misure di contrasto da adottare.

 

  1. I vini varietali.

Diversi paesi extra-europei, da potenziali importatori di vino che erano, si attrezzarono per diventare produttori. L’avvio lo diedero gli Stati Uniti che si ispirarono alla Francia. Presero ad impiantare vigneti delle varietà Cabernet, Merlot, Chardonnay e poche altre. L’esempio degli Stati Uniti fu ben presto seguito da Cile, Argentina, Australia, Nuova Zelanda, Sud Africa, Israele, … (sulla stessa strada si sta avviando la Cina), i quali fecero crescere la produzione con l’obiettivo dapprima di consolidare la domanda sui rispettivi mercati interni e poi diventare anch’essi paesi esportatori. Tutti a produrre vini dalle poche identiche varietà francesi, quelli che con malcelato disprezzo definiamo di gusto internazionale. Questi vini godono sui mercati extraeuropei di crescenti vantaggi: portano nomi varietali, pochi e facili da memorizzare; a farne crescere la domanda contribuiscono congiuntamente tutti assieme i paesi del nuovo mondo; costruiscono assuefazione al gusto specie tra i nuovi consumatori; sono sostenuti da un marketing aggressivo e differenziato; le cantine che li producono non godono di sostegno pubblico, così la selezione degli imprenditori capaci di stare sul mercato è più efficace. L’Italia invece si trova nella condizione di essere l’unica nazione a produrre e costruire domanda su vini derivanti da alcune centinaia di varietà storiche, coltivate esclusivamente nel nostro paese che danno origine ad oltre 520 denominazioni. Si avvertono così oggi segnali di inquietudine a causa di un mercato estero divenuto più competitivo. I cambiamenti ai quali ho accennato creano difficoltà e problematiche nuove per affrontare le quali occorrono apertura mentale, capacità di osservazione, disponibilità ad assumere il rischio di impresa, applicazione di nuove strategie, investimenti. Anche i produttori medio – piccoli (gli aggettivi fanno riferimento alla dimensione aziendale) ne hanno consapevolezza e molti tra essi sono in grado di accogliere la sfida. Il sostegno che essi sono in grado di offrire al successo del vino italiano viene spesso sottovalutato: l’idea che i produttori medio piccoli costituiscano una palla al piede per il vino italiano è profondamente sbagliata. Essi sono spesso capaci di pensare diverso, di esplorare strade nuove, e lo fanno con capitali propri ed a proprio rischio senza succhiare denaro pubblico; se avranno successo forniranno utili esempi. Lo fecero in passato Ferruccio Biondi Santi, Mario Incisa della Rocchetta, Edoardo Valentini, … Numerosi quelli che lo stanno facendo ora. Per questa ragione svolgono una azione sinergica e complementare a quella dei produttori di grandi volumi. Furono principalmente i produttori medio-piccoli, nei decenni sessanta, settanta ed ottanta, con la loro dedizione alla qualità, a contrastare la dilagante frode commerciale, gli scandali, l’immagine di assoluta modestia che sui mercati esteri veniva attribuita al vino italiano. Dopo di allora però la burocrazia crebbe a dismisura, si accanì, e sono i produttori medio – piccoli a soffrirla maggiormente, proprio quelli che andrebbero sostenuti, recuperati. Per favorire la crescita del vino italiano è indispensabile allentare l’abbraccio soffocante della burocrazia e rimuovere le molte ruggini accumulate nel tempo. Affinché non svaniscano gli effetti delle misure introdotte recentemente dal Testo Unico occorre accelerare l’approvazione dei decreti attuativi; ad ostacolarne il percorso sono però le associazioni di categoria che difendono accanitamente i propri interessi e preferiscono lo stallo a soluzioni che non le favoriscano. I produttori medio – piccoli potrebbero farne le spese. Cinquant’anni fa’ si decise che il settore vitivinicolo dovesse essere sostenuto con forti iniezioni di denaro pubblico: per tutelare la funzione alimentare del vino e sottrarre i viticoltori dalle grinfie dei commercianti che dominavano il mercato dell’uva. I cambiamenti sopraggiunti sono stati profondi.

L’assistenzialismo ad oltranza non è più una esigenza come allora, crea distorsioni al mercato ed alimenta interferenze politiche. Per questo motivo occorre fare appello al principio della trasparenza. A quanto ammonta annualmente il sostegno pubblico al comparto viti-vinicolo italiano? a quali settori ed in quali misure viene assegnato? Chi sono le cantine che utilizzeranno mosto concentrato o zucchero d’uva nell’annata 2017? quando ovunque in Italia la pratica di correzione dei mosti non è necessaria. Dovremmo imparare ad indignarci nel 2018 allorché verremo ad apprendere di cantine che venderanno all’ingrosso, agli imbottigliatori, volumi di vino italiano dell’annata 2017 a meno di un euro al litro, quando il calo di produzione nazionale potrebbe superare il 30% (i loro vigneti stanno sotto un altro cielo?). Che interesse ha l’Italia a gareggiare per il primato della quantità annuale di produzione di vino, confortati come è vero che sia anche di buona qualità, e poi apprendere che all’export viene venduto ad un prezzo medio al litro che è uno dei più bassi al mondo?

Angelo Gaja

Settembre 2017

Fondatore e redattore de I numeri del vino. Analista finanziario.

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