Il caso Brunello di Montalcino. Di Angelo Gaja

9 commenti

Pubblico questo intervento di Angelo Gaja sul caso Brunello di Montalcino. Commento, come al solito, da esterno in calce.

Nella decade sessanta i vigneti di Sangiovese atti a produrre Brunello di Montalcino non raggiungevano i 60 ettari, i produttori una ventina, le bottiglie prodotte non più di 150.000; nello stesso periodo gli ettari piantati a Nebbiolo nell’area del Barolo erano 500, 115 i produttori/imbottigliatori, 3.000.000 le bottiglie di Barolo prodotte annualmente.
Mentre però il Barolo non aveva un leader il Brunello di Montalcino aveva già in Biondi Santi un padre fondatore, l’artigiano che nel tempo aveva tenuto altissima la bandiera della qualità e del prezzo di un Brunello aristocratico, raro, prezioso, alla portata soltanto dei pochissimi che se lo potevano permettere.
E poi arrivò Banfi. Per capire come sia esploso il fenomeno del Brunello di Montalcino non si può prescindere da Biondi Santi e da Banfi.
Banfi, di proprietà dei fratelli americani Mariani distributori di vini sul mercato USA, innesca nella rossa Montalcino il sogno americano: il futuro è vostro amico, crescete e moltiplicatevi.
L’avventura inizia con una serie di errori clamorosi. Con il benestare delle amministrazioni locali e dei sindacati agricoli i siti da destinare a vigneto vengono letteralmente stravolti, boschi e querce secolari abbattuti, colline abbassate di decine di metri… ; con l’assistenza dei guru della viticoltura vengono introdotte tecniche colturali che stanno agli antipodi della coltivazione accurata della vite; anziché piantare Sangiovese
per produrre Brunello di Montalcino vengono piantati 500 ettari di Moscadello per produrre una specie di lambrusco bianco che non avrà successo. L’impresa sembrava volgere verso un fallimento clamoroso.
E invece, miracolo, dopo lo sbandamento iniziale Banfi prende atto degli errori commessi, attua con tempestività la riconversione dei vigneti, punta con grande decisione alla produzione del Brunello di Montalcino e diventa il motore trainante della denominazione costruendo sul mercato USA, il più importante al mondo per i vini di immagine e di pregio, una forte domanda che ben presto ricade sugli ignari produttori di Montalcino e si propaga in tutto il mondo.

Nessun’altra DOCG italiana ha la fortuna di avere un leader storico ed un leader di mercato come il Brunello di Montalcino. Grazie ad essi montò l’interesse, da parte di produttori/investitori italiani ed esteri, di venire a tentare l’impresa a Montalcino contribuendo così a consolidare la straordinaria spinta di crescita e di affermazione della denominazione sui mercati internazionali.
Oggi gli ettari di Nebbiolo iscritti all’albo del Barolo sono 1.800 mentre quelli di Sangiovese riconosciuti idonei alla produzione del Brunello sono diventati 2.000 – e sì che i produttori hanno cercato di frenarne la corsa introducendo il blocco degli impianti – 250 i produttori e 7 milioni le bottiglie prodotte annualmente. E’ stato da più parti fatto osservare che la maggioranza dei nuovi vigneti non possiede caratteristiche pedoclimatiche
tali da assicurare al Sangiovese di esprimere vini di eccellenza e si è lamentata la mancata zonazione (catalogazione scientifica dei terreni con la delimitazione di quelli vocati e di quelli no): ma la zonazione in nessuna parte del mondo – ad esclusione forse della Borgogna che riconosce però non una, ma oltre cento denominazione d’origine diverse – è diventata il principio ispiratore dei disciplinari di produzione. Meno che mai in Italia ove si è più propensi a coltivare la solidarietà e la compiacenza.
Oggi a Montalcino c’è una minoranza di produttori che gode di un doppio privilegio: di avere vigneti iscritti all’albo ed in più di possedere vigneti di Sangiovese altamente vocati capaci di esprimere vini di eccellenza. E poi esiste una maggioranza di produttori che gode a pieno titolo soltanto del primo privilegio. Sia dagli uni che dagli altri i consumatori si attendono un Brunello di Montalcino di elevata qualità.

Il disciplinare di produzione, redatto nella decade sessanta, quando gli ettari iscritti all’albo erano ancora una sessantina, impone il 100% di Sangiovese per la produzione del Brunello di Montalcino. Con l’esplosione della superficie vitata la maggioranza dei produttori in possesso di vigneti di dubbia vocazione avvertiva la necessità di migliorare la qualità dei loro vini e apparve ai più evidente che l’imposizione del 100% di Sangiovese risultasse penalizzante.
Si ritenne che il miglioramento genetico del Sangiovese attraverso la selezione clonale e l’introduzione di nuove tecniche di vigneto e di cantina avrebbero cambiato la situazione, mentre invece la questione resta sul tavolo oggi come allora.
Se le indagini che la magistratura ha in corso accertassero l’impiego di varietà diverse dal Sangiovese per la produzione del Brunello di Montalcino, la mancanza più grave commessa dai produttori sarebbe stata a mio avviso quella di non essersi adoperarti prima per modificare il disciplinare di produzione e rimuovere il vincolo del 100% di Sangiovese.
Voglio ricordare che il disciplinare del Rosso di Montalcino è ancora più inadeguato, presuntuoso e fuori del tempo.
I disciplinari di produzione si possono modificare ed il compito spetta esclusivamente ai produttori.
Ad ostacolare la modifica del disciplinare è il conflitto di sempre tra i produttori artigiani ed i produttori di grandi volumi, ispirati come sono a filosofie di produzione e a strategie di vendita diverse. Se si guarda però allo strepitoso successo del Brunello di Montalcino, occorre riconoscere che è nato dall’azione sinergica degli uni e degli altri, che gli uni e gli altri sono stati preziosi nel procurarlo e consolidarlo.

Ho letto che si ritiene inadatto ora un intervento atto a modificare il disciplinare di produzione del Brunello di Montalcino, quando l’indagine avviata dalla Magistratura è ancora in corso.
A mio avviso è invece arrivato il momento di pensare seriamente al dopo cominciando dalla modifica del disciplinare; essa richiede coraggio, tolleranza e rispetto reciproco da parte dei produttori. Occorre individuare una formula che consenta agli artigiani di esprimere nei loro vini la straordinaria dignità del Sangiovese e di poterla dichiarare in etichetta rendendo così riconoscibile la loro fedeltà al 100% della varietà, ed ai produttori di grandi volumi di poter operare con maggiore elasticità: e tutti e due i vini debbono potersi fregiare del nome Brunello di Montalcino.

Angelo Gaja
26 agosto 2008

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Fondatore e redattore de I numeri del vino. Analista finanziario.

9 Commenti su “Il caso Brunello di Montalcino. Di Angelo Gaja”

  • Marco Baccaglio

    E’ molto difficile non sottoscrivere i concetti di Angelo Gaja. Il mondo del vino si sta globalizzando e arrivano via via sul nostro mercato prodotti figli di regolamentazioni diverse e piu’ aperte di quella italiana. Se si vuole un prodotto “di massa” e’ necessario aprire i disciplinari e renderli piu’ flessibili.

    Quale e’ la vocazione del Brunello di Montalcino? Quale strada vogliono fargli prendere i suoi produttori? In questo caso c’e’ in gioco l’ambizione di una azienda come Banfi, che fattura oltre 60 milioni (a proposito, e’ il caso di rendere pubblico che l’azienda ha rifiutato di invare il proprio bilancio 2007 al blog per un commento) e che probabilmente potrebbe sfruttare al massimo una maggiore flessibilita’ del disciplinare.

    Qual’e’ la soluzione che nel lungo termine e’ migliore per il Brunello e per il suo mercato? Essere assolutisti sul concetto del 100% Sangiovese potrebbe essere dannoso per un prodotto come quello di Banfi, e nello stesso tempo darebbe a un prodotto come quello di Biondi Santi un prestigio e un fattore di differenziazione ulteriore.

    Bisogna fare attenzione, perche’ il vino e’ una delle poche ultime cose che il nostro Paese riesce a fare con risultati “mondiali”. Perdere anche questa leadership sarebbe veramente un peccato!

    Marco Baccaglio

  • paolo

    Per una volta non concordo nè con Marco, nè con monsù Gaja.
    In Italia non possiamo fare produzioni di massa: non siamo in grado di farlo con le automobili, prodotto esclusivamente industriale, figuriamoci con il vino o i formaggi! Noi sappiamo fare benissimo i prodotti di nicchia, siano auto, scarpe, vini o formaggi ed infatti tutto il mondo ce li invidia.
    Chi è che dice “vogliamo i prodotti di massa” ? A me non risulta che il consumatore voglia un prodotto alimentare di massa, semmai richiede un prodotto con un buon rapporto qualità/prezzo e soprattutto pretende di non essere preso in giro. Nella mia doppia veste di consumatore e distributore, mi si consenta di dire a Monsù Gaja questo: io non credo che a casa sua mangerebbe volentieri del Castelmagno fatto con latte di pianura in un anonimo caseificio insieme a dei grissini rubatà, ma stirati a mano a Tunisi…
    Quindi perchè noi dovremmo bere o vendere del Brunello fatto senza il sangiovese?

  • Rocco

    Concordo con Paolo. Non possiamo permetterci di chiamarli entrambi con lo stesso nome, al massimo “Nuovo Brunello” e “Brunello Storico”.

  • Andreas

    In pochi decenni da 150 000 a 7 millione di costossissime bottiglie? Un successone! Il Brunello sembra veramente una grande invenzione marketing. Parte del concetto: un vino a 100 per cento Sangiovese invecchiato 4 anni. Sembra funzionare alla perfezione…
    Vi sembra davvero una grande idea di cambiare qualcosa? Solo per poter vendere con il nome Brunello molto vino da zone non vocate?
    Invece di fare rispettare le regole le si cambiano a favore di chi ha sbagliato? Se fossi un produttore lavorando con vigne adatte e avendo sempre rispettato il disciplinare mi sentirei gravemente offeso. E come consumatore mi sentirei truffato.

  • damiano brognara

    tutta questione di marcheting,il brunello e
    e resta brunello,vogliamo cambiare la disciplinare,cambiamola a scapito del rosso di montalcino cosi da migliorare la doc,es.80 sangiovese e 20 merlot o cabernet se a qualcuno pice cosi,ma per carita non cambiamo il brunello non sono gia ottimi i vari biondi santi,salvioni,soldera,mastrojanni,barbi,e tanti altri? in piemonte il sig gaja ha cambiato vini del calibro di barolo sperss in langhe doc esempio di miglioramento bere un nebbiolo che prima era 100×100 e un rosso
    doc 96 e 4 x 100 ma non piu barolo docg ma
    langhe rosso doc .

  • Stefano

    Scusate ma a me sembra di leggere commenti di ragazzini… ma veramente credete che il Sangiovese 100% tenga 4 anni di invecchiamento e quel colore o che senza altri vitigni Cab-Merlot… gli USA avrebbe decretato tanto successo al Brunello? Certo una piccola eccellenza magari si ma se vogliamo ancora prenderci in giro con la questione delle nicchie andiamo pure ad espiantare il 75% dei nostri vigneti perchè per il resto serve modernità spirito imprenditoriale e dimensioni in grado di reggere il mercato. Certi atteggiamenti mi sembrano o in assoluta malafede o figli di una ignoranza senza pari.
    Ha ben detto Gaja, andava cambiato il disciplinare e intrapreso con coraggio il cammino del cambiamento e poi aggiungo che le nicchie di produzione fanno solo la fellicità di pochissime persone che raramente hanno nell’agricoltura il loro primo lavoro… Ah?! Le scarpe… chiedi a chi produce queste nicchie di successo dove le produce ora… sono marchigiano e nel nostro distretto le grandi firme hanno lasciato solo gli outlet…

  • paolo

    Scusa Stefano, ma il coraggio del cambiamento lo dovrebbero avere chi ha lavorato correttamente e bene per oltre 50 anni o chi è arrivato a Montalcino per ultimo e sbagliando a piantare le vigne non è riuscito a dare il ritorno economico previsto agli investitori?
    In tutto questa storia, fino ad oggi, non ha contato mai il terroir, hanno contato solo i soldi.

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