08. Le Opinioni del vino


Il vino non ci esce piu' dalle orecchie. Di Angelo Gaja

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La vendemmia 2011 verrà ricordata come la più scarsa che il nostro paese abbia mai prodotto (il servizio di Repressione Frodi nel corso del 2012 dovrà stare ancor più con le orecchie dritte). La previsione era facile da fare già a fine agosto, dopo venti giorni di caldo africano che aveva asciugato le uve, premonitore di un forte abbassamento delle rese sia nel vigneto che in cantina.
Dopo appena due anni di applicazione le misure OCM vino introdotte da Bruxelles hanno fortemente contribuito ad equilibrare il mercato, congiuntamente ai crescenti volumi di vendita realizzati dal vino italiano sui mercato esteri: come miracolo in molte cantine le scorte di vino sono ritornate a livelli normali se non anche di scarsità.
Prende così avvio per l’Italia uno scenario nuovo, mai vissuto in precedenza, non ci esce più il vino dalle orecchie, per diverse tipologie il vino comincia a mancare e di conseguenza saliranno (finalmente !) sia i prezzi delle uve che quelli del vino all’ingrosso.

Per anni il problema dell’Italia era che ogni anno si produceva eccedenze: parte venivano avviate al mercato abusato della distruzione attraverso il provvedimento della distillazione e parte contribuivano a comprimere ancor più i prezzi delle uve e del vino all’ingrosso. In presenza di un mercato perennemente eccedentario l’imperativo era vendere, a qualsiasi condizione di prezzo, e così siamo diventati il primo paese esportatore. A soffrire furono sempre i viticoltori, molti dei quali costretti a cedere le loro uve al di sotto del prezzo di costo, e quei produttori che in prossimità della vendemmia si vedevano costretti a svuotare la cantina per fare spazio alla nuova annata in arrivo.

Ora l’Italia del vino deve imparare ad accelerare un ciclo già in atto. Ci sono dei produttori italiani che vendono all’estero il loro vino nella fascia più ghiotta, quella che va dai tre agli undici euro a bottiglia partenza cantina. Occorre però che il loro numero cresca rapidamente, che molte cantine italiane che già operano sui mercati esteri imparino a vendere meglio, con valore aggiunto più elevato, costruendo una domanda più qualificata, dotandosi di strategie e strumenti più adeguati ad aggredire le fasce di prezzo più remunerative. L’Italia del vino ha tutte le possibilità di farcela: per il fascino dei territori, le varietà autoctone, storia e tradizione, ma molto, molto di più, per avere un patrimonio umano straordinario, un numero così elevato di viticoltori e di produttori di vino che nessun altro paese al mondo ha, una ricchezza che merita di essere valorizzata ed in grado di produrre rapidamente risultati migliori.

Angelo Gaja,
8 settembre 2011

Il vino laziale, un patrimonio da salvare. Di Stefano Castriota e Marco Delmastro

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E’ per me un onore ospitare sul blog questo contributo di Stefano e Marco. Per due volte nel corso di questi anni queste pagine hanno ospitato un commento dei loro studi sulla reputazione che hanno avuto come oggetto il mondo del vino (gennaio e dicembre 2009). Buona lettura e, soprattutto, buon dibattito. Marco Baccaglio

di Stefano Castriota e Marco Delmastro.

Da anni ormai le più prestigiose guide nazionali ed internazionali bocciano sonoramente la qualità dei vini del Lazio. L’Espresso parla di “ritardo ormai cronico” mentre il Gambero Rosso descrive la situazione come di “Allegro, non troppo”. Nemmeno a livello internazionale le cose vanno meglio. La reputazione all’estero delle denominazioni laziali (DOC e DOCG) è ben al di sotto della media nazionale: il Lazio si ritrova dietro non solo a corazzate enologiche come Piemonte e Toscana, ma deve anche recuperare posizioni rispetto a regioni di più recente affermazione come Puglia, Sardegna, Marche e Basilicata. La figura riporta la reputazione media e massima raggiunta dalle denominazioni delle regioni italiane: il Lazio registra valori tra i piú bassi in assoluto. Questa regione, inoltre, non può sfruttare altri fenomeni di traino commerciale quali la presenza di vitigni o prodotti locali riconosciuti a livello internazionale come sono, ad esempio, il Nero d’Avola ed il Marsala in Sicilia.

Nonostante ció il Lazio è una zona con una lunga tradizione vinicola che risale addirittura a prima dell’avvento degli antichi Romani. Nel Cinquecento gli ettari coltivati a vite erano circa il doppio di quelli attuali, essendo il vino non solo e non tanto una bevanda per accompagnare i pasti o trascorrere del tempo in compagnia quanto piuttosto un vero e proprio alimento ricco di calorie e principi nutritivi. Oggi i cambiamenti nelle abitudini di consumo di vino degli Italiani, con una diminuzione del consumo pro capite ed uno spostamento verso i prodotti di qualità, stanno radicalmente modificando la morfologia dell’enologia nazionale e, quindi, anche di quella laziale. A ciò si aggiunga la crescente pressione concorrenziale da parte dei produttori del cosiddetto nuovo mondo (Australia, Cile, Nuova Zelanda, Sud Africa e Stati Uniti) che stanno conquistando considerevoli quote a livello mondiale.

Le aziende italiane si trovano dunque a dover affrontare la concorrenza dei nuovi produttori sui mercati internazionali e contemporaneamente il progressivo e costante declino dei consumi domestici. In questo scenario il Lazio si trova in una situazione decisamente peggiore rispetto al resto dell’Italia. Con i suoi quasi due milioni di ettolitri è l’ottava regione italiana per quantità prodotta; tuttavia, nonostante la quota di vini DOC (25 denominazioni) e DOCG (la neo-promossa “Cesanese del Piglio”) sul totale della produzione italiana sia superiore alla media nazionale (49% contro 35%), la reputazione di queste denominazioni, come visto, di certo non brilla. Ciò si traduce inevitabilmente in bassi introiti per i produttori regionali e, di conseguenza, in inadeguati investimenti in qualità degli stessi con una spirale viziosa anziché virtuosa.

Più che le costose strategie di marketing che hanno caratterizzato le passate politiche regionali di sviluppo, la rinascita del vino laziale deve passare per la qualità dal momento che, soprattutto per questo tipo di bevanda, l’affermazione di un marchio dipende non tanto dalla pubblicità quanto piuttosto dagli investimenti in qualità. A loro volta, le scelte produttive delle aziende sono influenzate largamente dalle strategie regolamentari adottate da consorzi ed istituzioni.

È quindi urgente un innalzamento degli standard minimi di qualità stabiliti nei disciplinari delle denominazioni regionali (DOC e DOCG). Allo stato attuale non v’è dubbio che i disciplinari laziali siano carenti e non spingano i produttori sul sentiero della qualità. Il confronto riportato nella tabella è inequivocabile, il Lazio ha fissato standard di qualità inferiori da tutti i punti di vista: scelta dei vitigni, produttività delle vigne, titolo alcoolometrico, invecchiamento del vino, presenza di tipologie più selettive e prestigiose (sia per quanto riguarda gli standard in vigna che per quelli in cantina).

Da ció deriva che le scelte di qualità sono lasciate ai singoli che, considerate le limitate dimensioni di partenza e la bassa reputazione del prodotto regionale, incontrano grandi difficoltà ad affermarsi e pochi incentivi ad investire.

Colmare il divario con il resto del paese richiede uno sforzo economico non indifferente nel breve periodo ma può tradursi nel tempo in considerevoli e strutturali guadagni in termini di qualità, reputazione e reddito. Nell’agricoltura di qualità (e non solo) si raccoglie tra dieci anni ciò che si semina oggi. Nel Lazio, purtroppo, si è scelta finora la strategia delle scorciatoie tentando di ottenere risultati con l’affermazione di un ipotetico brand regionale, senza operare al contempo sulla leva degli standard di qualità, con il rischio di conseguire risultati esattamente opposti a quelli sperati. Per raggiungere miglioramenti significativi a livello regionale è necessario uno sforzo simultaneo e coordinato da parte di imprese, consorzi e soggetti istituzionali. Oggi, però, a parte qualche isolato risultato, si ode, dopo un periodo di pailette e lustrini, un assordante silenzio. Basterebbe, forse, semplicemente rimboccarsi le maniche e lavorare per innalzare la qualità dei prodotti regionali.

La multicanalita' nel settore del vino – sondaggio a cura di Silvia Guzzetti

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Silvia Guzzetti e’ una studentessa di economia che ha deciso di redarre la tesi sul mondo del vino e, in particolare, sul fenomeno della multicanalità nel settore del vino. Per procedere nell’analisi ha preparato un sondaggio il cui link pubblico volentieri. Di seguito trovate il link e una breve presentazione del lavoro che Silvia si appresta a fare e di cui chiaramente ci rendera’ conto sul blog a tempo debito!

Cari utenti de I Numeri del Vino,
sono una studentessa di economia e vi scrivo per chiedervi aiuto per la mia tesi di laurea.
L’argomento della mia ricerca è la multicanalità. Il numero di aziende che mettono a disposizione dei clienti più canali di contatto è in aumento e, quindi, i consumatori hanno più libertà nel scegliere come relazionarsi con le aziende.
Il questionario allegato indaga il comportamento di ricerca e di acquisto dei consumatori di vino. È completamente anonimo e non sarà utilizzato per scopi commerciali.

Vi ringrazio anticipatamente per il vostro aiuto.
Silvia Guzzetti

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“Petrolio o vino?”: relazione tra domanda globale e prezzi delle commodities

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Fonte: working paper IMF
Qualche giorno fa sono rimasto molto sorpreso da questo breve ma molto interessante documento dell’IMF (International Monetary Fund), che tratta anche di vino. E’ un working paper dove si cerca di modellizzare l’andamento dei prezzi delle materie prime in base alla crescita economica. Per farlo, ed e’ per questo motivo che il documento “casca a fagiolo” nel blog, prende due prodotti: il barile di petrolio e il vino di qualita’ (di alta qualita’, si intende). Che cosa conclude? Molto semplice, che se e’ vero che i problemi dell’offerta (cioe’ scarsa fornitura) possono determinare il prezzo dei prodotti, e’ in realta’ la domanda che sta veramente facendo crescere i prezzi. E lo studio separa due tipi di domanda, quella dei paesi sviluppati e quella dei paesi emergenti. Quest’ultima e’ la vera determinante, anche perche’ nello studio si mette in luce che e’ la domanda incrementale non viene da un incremento del consumo pro-capite (meno elastico) ma bensi’ da un aumento dei consumatori. Infine, una piccola ma importante nota sul tema del vino come investimento: lo studio identifica per il petrolio e per i vini di qualita’ la stessa performance negli ultimi anni. Il che significa che tutte le questioni circa il valore della diversificazione in un bene come il vino sono sostanzialmente vanificate dal fatto che il vino si comportera’ come il petrolio, che si comportera’ come il rame e via dicendo.



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I fattori che influenzano le decisioni di acquisto del vino – working paper AAWE

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AAWE ha pubblicato uno studio (working paper n.72) che analizza l’impatto della confezione del vino (etichetta, forma e colore della bottiglia e via dicendo) sulla decisione di acquisto. Lo studio e’ interessante perche’ ha testato la scelta di consumatori che non hanno potuto assaggiare il prodotto (tutte bottiglie tra 3 e 5 euro, di tre tipologie di vino bianco). Conclusione? L’aspetto esteriore della bottiglia ha la sua importanza. Il 40% dei consumatori analizzati ha considerato l’etichetta, mentre soltanto il 30% ha considerato l’origine e la classificazione del vino. Anche il colore della bottiglia ha la sua importanza (20% dei consumatori), mentre il 12% danno anche peso alla forma della bottiglia. Quindi, sommando i tre parametri relativi al confezionamento (forma, colore e etichetta), arriviamo al 70%.



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